Workshop di street photography a Milano
Ieri abbiamo chiuso il secondo workshop di street photography – che anche questa volta mi ha visto arrivarci con un filo di voce e una sana stanchezza nelle gambe e nella schiena, due sintomi che mi dicono che è andata bene.
Ed è andata bene, davvero… Anche questa volta la formula si è dimostrata vincente e i due giorni dedicati alla street photography sono stati ricchi di stimoli e molto interessanti, sia dal punto di vista della fotografia, sia dal punto di vista umano. La street photography è un argomento che a prima vista può sembrare semplice da affrontare, molti (troppi) erroneamente pensano che la street photography sia una tecnica, ma in realtà è un modo di approcciarsi alla fotografia, un linguaggio (o un meta-linguaggio direbbero i puristi), per cui presuppone che da parte dei partecipanti ci sia una certa predisposizione, non che una certa familiarità con le tecniche base e avanzate, oltre che ad una certa esperienza pratica.
E questo ci dovrebbe dare la misura di quanto poco sia semplice affrontare e condensare un argomento tale con un gruppo eterogeneo & anarchico in una due giorni.
Ma andiamo oltre.
Come al solito, quando termino un workshop, mi pongo alcune domande, prima di tutto mi chiedo se i partecipanti lo hanno trovato interessante e se questi due giorni hanno offerto spunti nuovi per la loro fotografia e il solo modo che ho di saperlo è di chiederlo direttamente al “gruppo” – che per la cronaca ha ammesso di aver trovato il workshop utile.
Poi mi doando se chi ha partecipato si è divertito – sì, divertito, perché penso che il divertimento sia davvero fondamentale.
E ancora una volta, il solo modo di conoscere la risposta e porre la domanda direttamente ai partecipanti – che per la cronaca, sempre per la cronaca, hanno tutti dichiarato di essersi divertiti.
Bene, dovrei sentirmi appagato – e lo sono, in realtà.
Ma poi mi pongo la solita domanda, forse la più singolare per qualcuno che organizza un workshop si possa chiedere: e io cosa ho imparato?
Io in questi due giorni ho imparato che non bisogna demordere, anche quando il primo giorno il gruppo di partecipanti si dimostra molto poco concentrato sul tema. Anzi, bisogna pungolarli, stimolarli, trovare un linguaggio comune e anche il gruppo più anarchico ti ripagherà con un secondo giorno che ha del miracoloso.
Ho imparato che forse sarebbe più semplice per me organizzare workshop facendo una selezione sulle reali capacità tecniche di ognuno dei partecipanti, ma che invece raccogliere la sfida di estendere i propri workshop a tutti – dal principiante che ha scartato la propria reflex solo tre giorni fa e che candidamente ammette che lui scatterà tutto in automatico, all’amatore esperto, che seppur sempre in modo garbato, cerca la sfida con il maestro e la sua approvazione – è stimolante perché ti costringe ad affrontare i problemi da punti di vista molto molto lontani e ti costringe ad usare linguaggi diversi.
Ma quando poi il principiante ti mostra forse la foto più significativa e più interessante del workshop, be’, allora senti di aver fatto proprio bene, anche se costa fatica.
Ho imparato che il momento più bello è quando il gruppo, questa volta davvero fin troppo nutrito (12), alle 4 del pomeriggio del secondo giorno viaggia muto su una carrozza de LeNord, a pezzi, ma visibilmente felice. Quel momento ti dice che hai fatto bene.
Ho imparato che il successo di un workshop si misura nella voglia di farne un altro subito, mentre ancora stai salutando i partecipanti di questo che si è appena chiuso.