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Storytelling: la luce nei ritratti

 

Fani

Styven Fani per il libro “So Special” – Lo sfondo (storica Canottieri Firenze) completa la storia, era necessario farlo risaltare, ma al tempo stesso staccare il soggetto e renderlo protagonista.

 

Nel post precedente ho tracciato quella che è secondo me è la forza e l’importanza del ritratto nel processo narrativo per immagini. In questo post cercherò di occuparmi di come illuminare i ritratti.

Salto a piè pari i ritratti rubati o quelli che eseguiamo in totale impossibilità di intervenire sulle condizioni di illuminazione – non diamo questa situazione troppo per scontata, perché a volte basta davvero spostare il nostro soggetto di poche decine di centimetri per ottenere un’illuminazione di gran lunga più interessante.

Questo è il punto: creare una luce interessante, soprattuto se stiamo eseguendo un ritratto.
Evitiamo la luce piatta, la luce piatta è una luce insignificante. Cerchiamo il contrasto, io personalmente amo accentuare i contrasti tra porzioni illuminate e aree buie, soprattutto nei ritratti.
La luce diffusa è la luce ideale per i ritratti, ma molto spesso rifuggo dallo scattare un ritratto con questo tipo di luce, a meno che la storia non lo richieda.
Ed ecco un altro punto fondamentale, cerchiamo sempre di illuminare il soggetto tenendo presente il tono e il tipo di storia che stiamo raccontando.

Chiediamoci sempre che tipo di scatto vogliamo realizzare, chiediamoci sempre prima che tipo di messaggio/storia stiamo raccontando con quel ritratto. Questo ci guiderà nella scelta della luce. Uno scrittore non può impiegare lo stile di scrittura di una fiaba per bambini se è alle prese con un noir ambientato a Parigi. Questo ci è chiaro, e chiaro ci deve essere anche l’uso della luce ( e non solo) al servizio della storia.

Cerchiamo la direzionali della luce, cerchiamo le ombre, usiamole. Usiamo i contrasti per raccontare un personaggio che ha risvolti forti, drammatici, per accrescere l’interesse.
Scegliamo una luce morbida e diffusa per accentuare la dolcezza di una ballerina, di un neonato.

Qualche volta cerchiamo di uscire anche dai cliché che tali illuminazioni standard inevitabilmente creano.
Qualche volta proviamo a mischiare le carte e a ritrarre un campione di kick boxing con una luce morbida, in high key e proviamo invece a ritrarre un’etoile con una luce cruda, di taglio, drammatica.
Proviamoci e vedremo che la nostra storia cambierà immediatamente registro – col rischio addirittura di diventare un’altra storia e questo potrebbe non essere quello che vogliamo.

Berengo-Gardin diceva “prima pensa e poi scatta”, facciamone tesoro, anche quando siamo chiamati a scegliere che tipo di luce usare per un ritratto. Pensiamo alla storia che stiamo raccontando e regoliamoci di conseguenza.

Non dimentichiamo però che siamo alle presi con il volto umano e che dobbiamo soffermarci sulle sue fattezze e cercare la luce che ne esalta i tratti – che non significa per forza trovare la luce che renda il nostro soggetto bello, ma INTERESSANTE SEMPRE.

Dobbiamo sempre prendere in considerazione la direzione della luce e il modo in cui la luce colpisce il nostro soggetto.
Ispiriamoci ai pittori del passato, ispiriamoci a Caravaggio (!) o Rembrandt (!) e cerchiamo di ricreare nel possibile illuminazioni simili.
A proposito di Rembrandt… una luce molto in voga tra in ritrattisti è appunto quella che viene chiamata luce Rembrandt, proprio perché riprende il gusto e l’effetto che il grande pittore fiammingo aveva per l’illuminazione.
La luce Rembrandt è tanto semplice quanto efficace. La luce principale, ma anche unica, è morbida, ma concentrata e deve illuminare il soggetto dall’alto, a circa 45° e non deve essere frontale, ma leggermente disossata – diciamo altri 45° rispetto all’asse obiettivo/soggetto.
Il risultato è il volto del soggetto illuminato parzialmente, con una sorta di triangolo luminoso tra occhio e zigomo nella porzione in semi-ombra – sulle dimensioni e sulla posizione del triangolo di luce i puristi si accapigliano da sempre, ma come potrete immaginare, lascio a loro questo passatempo…

Ecco un esempio di luce rembrandt, realizzato con un SB900, montato dentro un softbox 60×60 e attenuato da una griglia. La posizione non è la canonica 45°/45°, ma più vicina ad una 30°/30°:

Oscar Beltrami per il libro “So Special” – Un esempio di luce Rembrandt, anche se il triangolo di luce sotto l’occhio nella parte più in ombra non risulta molto definito (lo lascio ai puristi). Credo che in ogni caso, la luce di questo scatto contribuisca a rendere il ritratto molto intenso

 

In ogni caso, ispiratevi, siate certi di aver chiaro quello che state raccontando, guardatevi attorno, modificate, se potete, la luce a disposizione e scattate.

Consigli per gli acquisti –
“So Special” è un mio libro fotografico realizzato per Triumph Motorcycles Italie ed edito da Skira, in vendita dal 19/11 in tutte le librerie e che potete trovare anche cliccando qui: SO SPECIAL, un viaggio nel mondo delle special Triumph

Storytelling: l’elemento umano e i gesti

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Raccontare per immagini non è poi tanto diverso da raccontare per parole.
La grande differenza tra un fotografo e uno scrittore è che mentre lo scrittore può raccontare di qualcosa che ha sentito dire (non è necessario che lui sia sul luogo dei fatti), il fotografo DEVE essere presente per raccontare la sua storia, e questo fa sì che guardando una fotografia, ci immedesimiamo per forza nel punto di vista di chi ha scattato – QUESTO CREA UN CERTO GRADO DI EMPATIA con il fotografo e con il soggetto fotografato.
A maggior ragione il soggetto ritratto è fondamentale.
Se il soggetto mostra un elemento umano, l’empatia di chi guarda aumenta.
Ciò non significa che basti ritrarre una donna o un uomo per garantirsi uno scatto interessante.

Se decidiamo di ritrarre un soggetto umano è bene che si tenga presente che siamo più attirati quando riconosciamo un volto e lo siamo ancora maggiormente quando lo sguardo di chi è ritratto è rivolto a chi guarda.

Una persona ritratta all’interno di una scena assicura una dinamicità maggiore rispetto ad un albero o ad un edificio. Una persona, normalmente, interagisce con il resto degli elementi della scena e questo solletica l’empatia di cui parlavo prima.
Non è necessario ritrarre soggetti umani per intero, spesso, ad esempio, un taglio deciso, un dettaglio, racconta meglio di un campo intero, perché non svela l’intera relazione o aiuta a concentrarsi su ciò che viene riprodotto.

Ricordiamoci, però:  l’inserimento di un elemento umano aiuta a raccontare storie più interessanti. Non è neppure sempre necessario ritrarre soggetti che guardano in macchina, anche se lo sguardo diretto in un ritratto rende il ritratto più diretto ed esplicito.
Le decisioni vanno prese in base al messaggio e al linguaggio che intendiamo usare nella nostra fotografia.

Il lato opposto della medaglia è che includendo un elemento umano NON è una storia che va presa alla leggera, perché suggerisce un’attesa maggiore da parte di chi guarda e disattenderla renderebbe lo scatto decisamente mediocre e così anche la storia che cerchiamo di raccontare.

L’elemento umano non è solamente il volto. Possiamo raccontare storie bellissime senza ritrarre volti, concentrandosi su particolare o gesti.
I gesti evocano emozioni – date uno sguardo agli scatti di Richard Avedon, maestro supremo nel cogliere il gesto.
Il gesto suggerisce azione e l’azione è preferibile alla staticità, a meno che non si stia raccontando per ritratti.
Un sorriso, un gesto, sono attimi, che se colti con capacità, possono costruire storie molto interessanti.

Prendiamo ad esempio la foto d’apertura, racconta una storia chiara, parla immediatamente di un matrimonio e l’elemento umano è predominante, anche se soltanto suggerito. È per questo la storia meno forte? era necessario inquadrare anche il volto dello sposo, per raccontare la storia per intero?
Ognuno faccia i suoi ragioanamenti.

 

Storytelling: l’essay fotografico

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Fino ad ora ho affrontato il tema dello storytelling attraverso alcuni consigli che avevano più a che fare con la sensibilità del fotografo e con la tecnica fotografica, ora vorrei spostare l’attenzione su come costruire una storia attraverso una serie di immagini, un essay.

In questo caso, nel caso dell’essay, l’analogia tra il fotografo e lo scrittore si fa ancora più forte.

Un essay fotografico è una storia raccontata attraverso una serie di immagini, e, credetemi, assomiglia davvero molto alla costruzione di un racconto o di un romanzo.

Un essay fotografico si sviluppa attraverso più immagini – il numero non è fondamentale.
Fondamentale invece è la consapevolezza che tutte le immagini debbano concorrere a raccontare la storia, anche se in con ruoli e pesi diversi.
Come lo scrittore, anche il fotografo, che intende raccontare una storia un essay, deve saper costruire un ritmo, capace di catturare chi guarda, incuriosirlo e  guidarlo attraverso la storia.
Mantenendo l’analogia con lo scrittore, le foto sono per il fotografo quello che per lo scrittore sono le scene, foto e scene costruiscono il plot, la trama del racconto.

CONOSCERE IL CONTESTO.
Conoscere il contesto che vogliamo raccontare è fondamentale. Conoscere il contesto ci aiuta ad individuare i possibili temi attraverso i quali possiamo raccontare la nostra storia.

Non dobbiamo però confondere tema storia. Ogni storia può essere sviluppata attraverso temi diversi. I temi – di solito più simili ad archetipi narrativi – sono gli architravi sui quali poggiare la nostra storia, pensiamo ai temi come a dei binari sui quali poggiare e far viaggiare la storia.
Se siamo padroni del contesto, se sappiamo cosa stiamo raccontando, saremo in grado di sviluppare in modo interessante i temi, attraverso i quali abbiamo deciso di raccontare.

Più ci appoggiamo a temi universali e trasversali, più la nostra storia avrà la possibilità di essere capita ed accolta con favore.
Ma c’è un rischio piuttosto rilevante legato ai temi universali: più ci appoggiamo a temi universali e più rischiamo di essere banali.
Questo non significa che un tema universale non possa essere trattato con un piglio singolare.
Il medesimo problema si presenta allo scrittore. supponiamo che decida di raccontare la storia legata alla fine di un amore, di sicuro non si tratta di una storia nuova e supponiamo che intenda farlo sviluppando temi quali la gelosia, la noia, la rabbia, anche questi non sono temi inesplorati, tutto però dipende dal suo approccio. Se ad esempio esplorasse il tema della positività della gelosia, la sua storia di sicuro potrebbe suscitare un certo interesse.

E anche al fotografo alle prese con un essay si pone il medesimo problema: provare a trattare temi universali attraverso una visione personale, possibilmente nuova – ma quanto meno personale.

Di sicuro pero, dobbiamo essere padroni dei temi che sorreggono a nostra storia. Dobbiamo conoscerli per poterli ritrarre e dobbiamo saperli manipolare se vogliamo che si pieghino e sorreggano al meglio la nostra storia.

Ogni volta che inquadriamo, chiediamoci se quello che vediamo dentro il nostro mirino può contribuire alla storia che stiamo cercando di raccontare , in che modo e quanto. Prima di scattare, chiediamoci se quella scena aderisce ad uno temi della storia.
Supponiamo che il nostro essay sia dedicato ad una comunità che vive sotto un ponte sulle rive dello Yamuna River a Delhi.
Quali sono i temi che possiamo sviluppare per raccontare la nostra storia? Il fiume, di sicuro. Il ponte. La povertà, di sicuro, le condizioni di vita disagiate. Riusciamo a mostrarle in contrasto con l’evidente felicità dei bambini che giocano sotto il ponte? Sarebbe un modo singolare per ritrarre l’indigenza, spogliandola della retorica sofferenza e mostrandola quasi come condizione accettabile.
Potremmo mostrare gli oggetti quotidiani, mostrare le capanne e la loro fragile condizione e mostrare l’assoluta fierezza di chi le abita, la fierezza di chi dice non importa ciò che è, ma questa è casa mia. Questo è un modo di trattare un tema universale come la povertà in un modo personale – non dico nuovo, ma personale.
Ognuno di questi temi, ed altri ancora naturalmente, ci aiuterà a costruire l’intelaiatura visiva sulla quale costruire la nostra storia e se i temi risulteranno sviluppati con cura, singolarità e sensibilità, la nostra storia non potrà non suscitare interesse.

RITMO UGUALE ATTENZIONE
Per fare quello che vi ho appena descritto non abbiamo bisogno soltanto di grandi scatti, abbiamo piuttosto bisogno di creare un flusso, un ritmo visivo, un’alternanza di immagini forti e di immagini di supporto che sappia condurre per mano chi guarda e portarlo dentro il mondo che abbiamo deciso di raccontare.
Pensiamo alla storia di un meccanico.
Sicuramente il suo ritratto, magari ambientato nella sua officina, potrebbe essere lo scatto principale, quello nel quale pensiamo di condensare i tratti narrativi.
Ma il meccanico lavora con le mani. Un primo piano delle sue mani sporche di grasso e segnate sarebbe uno scatto molto significativo e utile per fare entrare chi guarda nel suo mondo, forse anche più del suo ritratto. E così il banco con gli attrezzi, sarebbe uno scatto accessorio molto rappresentativo, che aiuterebbe a capire meglio chi guarda e che farebbe apprezzare ancora di più il ritratto del volto.
Se il ritratto funziona come scatto chiave, gli scatti delle mani e degli attrezzi aiutano ad apprezzarlo e meglio comprendere il mondo che stiamo ritraendo, anche se tecnicamente il banco con gli attrezzi e le mani sporchi sono scatti più semplici da fare e forse meno evocativi di un ritratto.

Questo però per dirvi che in un essay fotografico ci servono immagini che introducano lo scatto principale ed immagini che ne completino la descrizione.

STRUTTURA DEL RACCONTO
Sono certo che non amereste particolarmente un romanzo che mantienga lo stesso ritmo dalla prima pagina all’ultima, così come non riuscireste ad apprezzare un essay fotografico dove tutte le immagini proposte sono key shot – immagini principali.
È necessario imparare a creare un ritmo, alternando scatti minorikey shot, dove gli scatti minori hanno il difficile compito di sottolineare, introdurre, , amplificare, dettagliare e approfondire il contesto della nostra storia per immagini

SCATTI INTRODUTTIVI.
Gli scatti introduttivi servono a portare chi guarda all’interno del contesto
. Non è necessario svelare tutte le nostre intenzioni dal primo scatto, ma dobbiamo fornire tutti gli elementi necessari perché chi guarda capisca il contesto della nostra storia.
Naturalcmente molto dipende dal tipo di storia che stiamo raccontando, non sempre un panorama è la scelta corretta per uno scatto introduttivo – anche se spesso lo è.
Se il racconto si snoda in un ospizio per anziani senza famiglia alle porte di Kathmandu, uno scatto che mostri l’ingresso dell’ospizio o una targa che riassuma lo scopo ed elenchi i donatori possono funzionare molto bene.
Se la nostra storia vuole raccontare un parco naturale o una città, forse una panoramica funzionerebbe meglio.

SCATTI ACCESSORI o MEDI.
Aiutano a definire meglio la storia
. Costituiscono il corpo. Possiamo paragonarli ai gregari in una squadra di ciclismo, aiutano il campione ad emergere e molto spesso fanno il lavoro sporco, consapevoli che le attenzioni alla fine saranno tutte per il campione – lo scatto/gli scatti principali.
Quanti scatti accessori  fare? Dipende dalla lunghezza del nostro essay. Più è alto il numero totale di scatti che compongono l’essay e più possiamo irrobustire il corpo della nostra storia con scatti accessori.
Attenzione! Troppi scatti accessori o intermedi rischiano di annoiare chi guarda, che vuole essere emozionato – qualità che gli scatti medi o accessori non hanno.

Le tecniche che possiamo utilizzare per gli scatti intermedi sono molteplici. Possiamo ad esempio mostrare il personaggio principale del nostro essay con altri personaggi secondari, o ritratto in una qualche attività, possiamo includere molto contesto o usare campi lunghi o non mostrarlo completamente.

Gli scatti medi sono un passo o due più dentro la storia rispetto agli scatti introduttivi.
Ci aiutano a contestualizzare meglio quello che stiamo raccontando.
Naturalmente la tipologia della storia detta la necessità di avere o meno scatti introduttivi. Difficilmente esistono essay fotografici privi di scatti accessori o medi.
Gli scatti medi solitamente identificano i personaggi e il mondo in cui si muovono.
Se stiamo raccontando gli ultimi cowboy dell’Arizona, uno scatto introduttivo potrebbe ritrarre una mandria e un cowboy in campo lungo o lunghissimo, una serie di scatti medi potrebbero chiudere su uno o più cowboy intenti a radunare gli animali o a cavalcare, per poi portare lo spettatore ai singoli ritratti – gli scatti principali

DETTAGLI
Personalmente amo molto l’uso dei dettagli per sviluppare i temi di una storia. I dettagli completano in modo magistrale una storia, e, nella loro operazione di sintesi meta-linguistica, riescono ad essere molto evocativi.
Se il volto segnato dalla vita di un vecchio esule tibetano nei campi profughi del Ladakh è lo scatto principale, le sue mani, il suo rotolo di preghiera, possono essere gli elementi pivotali per un buon storytelling.

Pensiamo in grande e scattiamo in piccolo. È una regola pratica che ci aiuta a completare una buona storia.
Il ritratto dell’anziano nepalese a Pashupatinah che legge tutte le mattine le sue preghiere diventa ancora più forte se lo supportiamo con un dettaglio delle pagine consunte del vecchio libro.
I dettagli sono gregari fondamentali, non scattiamoli con sufficienza o come semplici riempi buchi.

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Questo dettaglio “completa” il ritratto d’apertura. Probabilmente da solo non direbbe molto (sia dal punto di vista tecnico, sia dal punto di vista emotivo), ma, a sostegno dell’immagine in apertura, assume una forza evocativa diversa e “porta per mano” chi guarda nel contesto della storia

SCATTI PRINCIPALI
Una storia senza scatti principali non sta in piedi, proprio come un giallo senza assassino!
Pianifichiamo con calma quelli che pensiamo debbano diventare i nostri scatti principali, da loro dipende l’effettivo successo del nostro essay.
Il ritmo costruito attraverso gli scatti introduttivi e gli scatti accessori DEVE sfociare in un climax, in uno scatto forte in grado di sintetizzare la nostra storia. In un essay fotografico possiamo avere più scatti principali, ma non è possibile che esista un essay senza uno scatto culmine.
Lo stile del nostro key shot dipende dalla storia, la tecnica dipende dal linguaggio, dal messaggio e dalla nostra creatività, ma ovunque cada la scelta stilistica e tecnica non possiamo concepire un essay senza un climax, senza uno scatto principale.
Quando imbastiamo la trama di un essay fotografico dobbiamo avere molto ben chiaro quali saranno i nostri scatti principali. I nostri key shot dovranno essere forti, significativi.
Leggereste un giallo dove non c’è assassino?

key shot rappresentano il culmine della nostra storia, il climax o i climax.
Spesso vanno pianificati in anticipo, alcune volte semplicemente accadono, in ogni caso NON ESISTE STORIA CHE SI RISPETTI SENZA CLIMAX.

Un esempio di scatto principale e di scatti accessori:

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Shelter for the Elderly, Pashupatinath, Kathmandu (Nepal)

 

Storytelling: la composizione è uno strumento potente

Anziana nella città vecchia di Varanasi. Composta sui terzi per rendere il ritratto più dinamico e lasciare intravvedere parte del suo mondo

Anziana nella città vecchia di Varanasi. Composta sui terzi per rendere il ritratto più dinamico e lasciare intravvedere parte del suo mondo

 

La composizione è uno dei migliori alleati dello story telling per immagini, e faremmo bene a ricordarcelo!

Decidere cosa va nell’inquadratura e cosa invece no, decidere dove posizionarlo… queste sono le basi dalle quali partire per raccontare con efficacia la nostra storia fotografica e la composizione si occupa proprio di questo.

La composizione – cioè le regole attraverso le quali creiamo le relazioni visive tra gli elementi che compongono la scena  – aiuta chi guarda a focalizzare la sua attenzione su ciò che per noi ha importanza, dal punto di vista del racconto fotografico, indica il soggetto principale, suggerisce relazioni, anche magari non così esplicite. Pensiamo alla composizione come ad una sorta di grammatica dell’inquadratura.

Amo ripetere questa frase:

 ciò che non è nell’inquadratura non esiste

Questo per me è molto più di un diktat, qualcosa forse più vicino ad un mantra.

Con questo postulato bene in mente, cerco di capire come comporre al meglio perché la mia storia appaia evidente a chi non è lì con me in quel momento.
Perché credo che questo sia davvero il punto di partenza per ogni scatto: decidere cosa includere e cosa no ed essere consapevoli che quello che decidiamo di escludere non verrà mai letto da nessuno (lo sapremo solo noi che c’era un leone di fianco al bimbo che mangia il gelato, se non lo inquadriamo).

Per nostra sfortuna, però, è vero anche il contrario: tutto quello che includiamo nell’inquadratura assume un significato per chi guarda.
Anche questo deve essere una cosa da tenere a mente, per cui se includiamo un dettaglio, un dettaglio qualsiasi, quel dettaglio, per chi guarda, assume immediatamente importanza. Pensiamoci bene quando inquadriamo, perché non potremo dire a chi guarderà i nostri scatti “no guarda, quello non c’entra”…

La composizione, le sue regole, ci devono guidare per esaltare il messaggio che intendiamo trasmettere con i nostri scatti.

Lo storytelling fotografico passa inesorabilmente per le regole della composizione, come per lo scrittore è fondamentale la scelta dei verbi, che lo aiutano a  rendere il giusto ritmo narrativo.
Nello storytelling per immagini non basta trovare un buon soggetto, un buon soggetto è un ottimo punto di partenza è poi l’occhio del fotografo, la sua sensibilità, il suo linguaggio fotografico che completano il processo. Occhio, sensibilità, linguaggio… passano tutti per la composizione.
Ricordiamoci che anche lo sfondo è un elemento della scena – troppo spesso ce lo scordiamo. Lo sfondo non va sottovalutato, dobbiamo dedicare lo stesso tempo che dedichiamo alla scelta del soggetto anche allo sfondo. Lo sfondo NON deve mangiare il soggetto, lo deve esaltare. Troppo spesso ottimi soggetti, che potrebbero trasformarsi in grandi scatti, vengono fagocitati da sfondi confusi e troppo presenti. Lo sfondo va usato come contesto e non come distrazione, deve aiutarci a raccontare meglio la storia, non affondarla.

LO SCOPO PRINCIPALE DELLA COMPOSIZIONE È QUELLO DI GUIDARE L’OCCHIO DI CHI GUARDA.

Abituiamoci a considerare l’atto di comporre – di disporre cioè gli elementi all’interno dell’inquadratura – come un momento imprescindibile del processo creativo che genera uno scatto fotografico.

Esploriamo le varie possibilità che la composizione ci offre. Cerchiamo quale composizione meglio possa raccontare la nostra storia. Terzi, simmetria, linee guida, curve, armonie di colori, colori a contrasto, forme… le regole sono molte, esploriamole, applichiamole, non fermiamoci a quelle più ovvie, sarebbe come per uno scrittore impiegare sempre gli stessi vocaboli.

Pensiamo all’uso della profondità di campo ad esempio (uno strumento tecnico/compositivo proprio della fotografia), pensiamo a come la capacità di mettere a fuoco in maniera selettiva questo o quell’elemento della nostra scena possa modificare, se non ribaltare, la storia che stiamo raccontando con la nostra macchina fotografica.

Non starò qui a dilungarmi oltre sulla composizione, troverete tutto e di più un po’ ovunque  – ad esempio anche nel mio altro blog “Fotografia Facile” sotto la categoria “Composizione” – vi dò  un consiglio, però: prendetevi il tempo necessario per comporre con attenzione, molto spesso un buono scatto diventa memorabile grazie ad un’attenta composizione.

Alcune regole di base per comporre:

  • La simmetria
  • La regola dei terzi
  • Le linee verticali, orizzontali, diagonali e curve
  • Le linee d’entrata
  • Le forme
  • La ripetizione degli elementi
  • Quinte, cornici e vignette
  • Più piani
  • Il colore
“Prima pensa, poi scatta”
– Cit. Gianni Berengo Gardin

Storytelling: è la luce a dettare il tono

La luce radente della mattina presto, la foschia e le ombre decise sulla gelata invernale. Una storia

La luce radente della mattina presto, la foschia e le ombre decise sulla gelata invernale. Un tono drammatico.

Lo scrittore ha a disposizione molti strumenti per creare il tono del suo racconto. È però fondamentale che il tono scelto sia coerente con il tipo di storia, con il carattere dei personaggi, con l’ambientazione scelta. Non perdoneremmo mai ad uno scrittore di far esprimere un giovane gangsta rapper come lo farebbe un damerino della Londra di fine Ottocento.

Il fotografo che si avventura nella storytelling visivo HA lo stesso dovere di mostrare coerenza – o se decide di rompere gli schemi deve essere padrone della tecnica e non deve farlo per ignoranza.

Nello storytelling fotografico è la luce che detta il tono o per dirla come i professionisti, che fa il mood.
Questa è una regola semplice, ma fondamentale.
Prima di pensare alla tecnica, prima di risolvere la cruda matematica di tempo & diaframma, scegliamo il tono che vogliamo dare alla nostra fotografia, di conseguenza avremo così scelto anche il tipo di storia che stiamo raccontando – e sarà anche più facile poi scegliere la posa del nostro soggetto o il luogo.

Mi piace pensare che NON ESISTA UNA CATTIVA LUCE IN ASSOLUTO, esistono pessimi utilizzi, che danno vita a brutti scatti, quasi tutti accomunati da una luce piatta, insignificante,

Se i verbi in un racconto rappresentano l’azione, sta allo scrittore trasmettere al lettore il ritmo, appoggiandosi alla grammatica e scegliendo le parole più evocative e adatte alle diverse situazioni. Nella fotografia esiste la luce, che può esaltare un ritratto intenso e suggerire a chi guarda la fatica o la gioia o la disperazione, suggerire l’emozione.

Quando scattiamo, i dettagli da considerare sono davvero essere molti e spesso ci si mette la fretta o le condizioni poco agevoli – soprattutto in viaggio – e qualche volta questi i motivi (più o meno giustificati) per i quali ci dimentichiamo il focus di quello che stiamo facendo: raccontare una storia attraverso uno scatto. Spesso la fretta ci fa scegliere per la via più breve e ci accontentiamo di una luce povera.
Pietro Donzelli,  grande fotografo del neo realismo italiano, mi diceva spesso che la luce migliore è quella fatta di ombra.
Allora ero troppo giovane per capire, ma poi, con gli anni, ho colto il significato di quella frase, che potrebbe sembrare un paradosso.

Il contrasto tra chiaro e scuro è la chiave per raccontare con toni dinamici, forti. Ed è la luce che personalmente preferisco.

Ma credo che il segreto (di Pulcinella) sia conoscere le possibilità diverse di illuminazione e scegliere quella che è in grado di sostenere il racconto visivo del nostro scatto, di farlo arrivare, di sottolinearlo emotivamente.
Qualcuno griderà alla scoperta dell’acqua calda, come dare loro torto!? ma se guardiamo i numerosi brutti scatti che ci passano quotidianamente sotto gli occhi e poi ci soffermiamo invece sui capolavori della fotografia, non possiamo notare che, al di là del soggetto (ed eccezion fatta per la foto di reportage), i capolavori nascondono una maniacale cura per la luce impiegata, sempre coerente con la storia, anche quando il fotografo ha scelto di andare oltre le convenzioni.

La qualità della luce, l’intensità, la sua direzione, la temperetura, il contrasto, le ombre, definiscono il tono del nostro scatto.
La luce che scegliamo di usare stabilisce forse il primo contatto emotivo con chi guarda la nostra fotografia.

Se penso ad un ritratto di Keith Richards, penso immediatamente ad una luce decisa, che enfatizza il volto segnato da una vita al massimo, penso ad una luce drammatica, teatrale, fatta di chiari e di ombre intense. Non penso ad un bianco alla Toscani! Che non vuol dire che sia sbagliato provarlo, ma che di certo racconterebbe tutta un’altra storia e dobbiamo esserne consapevoli.

La scelta della luce adatta a quello che vogliamo raccontare vale sia che ci si stia cimentando con un ritratto, sia che si stia scattando un paesaggio.
La luce morbida dell’alba filtrata dalla bruma che ristagna sulla brughiera dà una sensazione completamente diversa dalla luce radente del tramonto: stessa inquadratura, due brughiere  completamente diverse e due storie altrettanto diverse, perché le emozioni che provocano lo sonno. Due luci differenti, due mood differenti.

La bruma del mattino vela il duomo di Orvieto. La luce diffusa trasmette pace e silenzio, la giornata deve ancora cominciare

La bruma del mattino vela il duomo di Orvieto. La luce diffusa trasmette pace e silenzio, la giornata deve ancora cominciare

La luce NON è soltanto bella o brutta, la luce può essere

  • intensa
  • rassicurante
  • morbida
  • cruda
  • drammatica
  • avvolgente
  • calda
  • fredda

… e si potrebbe continuare a lungo.
Questo soltanto per suggerirvi che se riusciamo ad andare oltre il dualismo stereotipato di bella/brutta, la luce (e i suoi aggettivi) può aiutarci a raccontare meglio fotograficamente.

La donna cieca aspetta il tè del mattino nel ricovero per anziani di Pashupatinath. La luce è protagonista tanto quanto il soggetto, il tono della storia è intenso, non suggerisce leggerezza - perché non c'è leggerezza nella storia di questa donna.

La donna cieca aspetta il tè del mattino nel ricovero per anziani di Pashupatinath.
La luce è protagonista tanto quanto il soggetto, il tono della storia è intenso, non suggerisce leggerezza – perché non c’è leggerezza nella storia di questa donna.

La luce può essere davvero molte cose, una soltanto non deve esserlo mai: PIATTA!